sabato 20 novembre 2010

domenica 22 agosto 2010

Espressioni idiomatiche

Le espressioni idiomatiche giapponesi sono sempre state di grande interesse per me, così come quelle di tutte le lingue, poiché spesso sono degli importanti riferimenti culturali. Vale a dire, analizzando le espressioni idiomatiche ci si può rendere conto di come una determinata cultura dia importanza a certi elementi.
Le espressioni idiomatiche giapponesi sono innumerevoli, molte delle quali vedono al loro interno la presenza della parola ki 気. Il significato di ki cambia a seconda di ciò che viene prima o dopo di esso. Fondamentalmente si possono riscontrare due tipi di frasi.
Il primo tipo vede come "modificatore" un verbo nella sua forma del dizionario, per esprimere un certo tipo di azione. In questo caso ki assume il significato di intenzione, pianificazione o inclinazione. Quando il grado di certezza è alto, ki può essere intercambiabile con yotei予定 o keikaku計画.
Il secondo tipo prevede l'utilizzo della forma del dizionario di un verbo che esprime una condizione (come per esempio wakaru, dekiru, iru), così come la sua forma passata, le forme -te iru e -te ita e gli aggettivi. In questo caso  -ような è spesso aggiunto. Ki assume il significato di "feeling", "sensazione" e potrebbe essere sostituito da kibun 気分.
In entrambi i casi, kimochi 気持ちpuò essere considerato un sinonimo e, con l'eccezione di ki ga suru, anche tsumori.

1. Avere intenzione di
大学へ行く気なら学費ぐらいはなんとかしてやるから頑張れ。
Se hai intenzione di andare all'università, farò ciò che posso per aiutarti nelle tasse scolastiche. Quindi fai del tuo meglio.

今のところは参加する気でいますが、はっきりした返事はもうしばらくお待ち下さい。
Al momento ho intenzione di partecipare, ma aspetti ancora un po' per la mia decisione finale.

2. Sentire, provare
たった半年暮らしただけでその国のことがすべて分かったような気でいる。
Ho vissuto là per solo sei mesi, ma sento come se avessi conosciuto tutto il paese.

大船に乗った気で*、安心してお任せ下さい。
Rilassati, sei in buone mani. Lascia fare a me.
(*Oobune ni notta. Letteralmente "salire su una grande nave").

Esistono molte espressioni che prevedono la parola ki, vale a dire i detti. Ne pubblicherò alcuni successivamente.

venerdì 13 agosto 2010

Causativi e passivi

Ho deciso di inserire questo post poiché ho notato che tra i miei studenti si tratta sempre di una parte di difficile comprensione che crea spesso dubbi. 
Il causativo serve come sapete a rendere semplicemente il senso di "far fare qualcosa a qualcuno". è ovvio che il soggetto può essere chiunque, quindi possiamo costruire frasi come "fallo fare a me", oppure "io te lo faccio fare". 
è possibile unire il verbo al causativo con i verbi di dare e di ricevere ageru, kureru, morau e i rispettivi verbi in sonkeigo. In questo caso stiamo esprimendo una sfumatura di favore, perchè stiamo appunto dando o ricevendo un favore.
Confrontate al proposito queste due frasi.

お母さんは子どもに本を読ませました。
先生は私に英語で話させてくれませんでした。

Inoltre, è possibile mettere la particella を invece della particella に quando il verbo causato è un'azione riflessiva, come ridere o piangere. 
アレンさんはみんな笑わせました。 

In merito al passivo, confrontate queste due frasi

私は友達に日記を読まれました。
私は友達に手紙を読んでもらいました。

Il primo caso è un passivo di danno con verbo transitivo, il secondo caso invece è semplicemente forma in て più il verbo di ricezione もらう, quindi sfumatura di favore.
Attenzione. Se decido di tradurre in italiano al passivo una frase formata da verbo transitivo + ある (per creare uno stativo o un risultativo) devo però rendermi conto che in giapponese essa NON è una costruzione passiva, perchè non c'è modo di risalire all'agente.


giovedì 12 agosto 2010

Il katakana e i gairaigo


Tutti coloro che in qualche modo hanno affrontato lo studio della lingua giapponese sanno che essa è complessa e ricca di sinonimi, e tale complessità è sostenuta dall’utilizzo di kanji diversi per i diversi sinonimi.
Tale ricchezza di vocabolario è data inoltre dai prestiti di lusso, trascritti in katakana secondo un sistema di adattamento fonetico. In realtà capita che questi prestiti arrivino ad avere una particolare connotazione inesprimibile con la controparte giapponese.
Prendiamo l’esempio del giorno di San Valentino. Coloro che in questa ricorrenza sono stati così fortunati da ricevere del cioccolato dalle loro amiche o colleghe dovranno ricambiare la cortesia con piccoli regali nel cosiddetto ホワイトデー (white day) il 14 marzo. White day fa parte delle cosiddette gairaigo 外来語 (parole straniere prese in prestito, spesso dall’inglese, scritte in katakana) ormai utilizzate regolarmente in Giappone. 
Non tutti i gairaigo fortunatamente hanno neutralizzato le loro controparti in kanji. Per esempio, nomi di colori come 赤 (aka, rosso), 青 (ao, blu o verde),白 (shiro, bianco), 黒 (kuro, nero), 緑 (midori, verde), 紫(murasaki, porpora) sono ancora vivi e vegeti nel giapponese scritto. 
In giapponese possono essere identificate tantissime sfumature di rosso, colore che in Giappone simboleggia la buona sorte: nel Paese del Sol Levante il sole è considerato rosso, e non giallo, il che spiega perchè nella bandiera nazionale è presente un grande cerchio rosso. I bambini vengono chiamati 赤ちゃん (akachan) a causa del loro colore rosso al momento della nascita. Insieme a 赤, le altre sfumature di kanji includono 紅 (beni, cremisi), come in 口紅 (kuchibeni, rossetto) e 朱 (shu, vermiglio). 朱色 (shuiro) è il forte colore rosso dei portali dei sacrari shintoisti, i torii 鳥居.
La parola che tradizionalmente indica il colore rosa è 桃色 (momoiro, color pesca), ma ピンク (pinku) è ultimamente molto più utilizzato. L’immagine che ピンク evoca nella mente di un giapponese è la sovrapposizione tra la cuteness di Hello Kitty e l’erotismo dei cosiddetti ピンク映画 (pinku eiga, film rosa), i film giapponesi porno-soft, il tutto condito da un’immagine di ragazza artificiosamente naive.
Nero (黒) e bianco (白) insieme rappresentano i colori del lutto, il che spiega perchè le donne giapponesi indossano perle bianche con i propri ブラックフォーマル burakku fōmaru (abiti neri formali) ai funerali.
Il verde è 緑 (midori / ryoku), e il the giapponese, chiamato お茶 (ocha), è più propriamente classificato come 緑茶 (ryokucha, the verde). 青 (ao), oltre al primo significato di “blu”, può anche significare “verde”, come in 青信号(aoshingou, il semaforo verde) e 青草 (aokusa, erba verde).
Esistono anche parole scritte in katakana che sono di “produzione nazionale”, anche se derivano palesemente da vocabolari stranieri: negli ultimi anni si parla di セクハラ (sekuhara, sexual harassment, le molestie sessuali) e di パラサイトシ・ングル (parasaito shinguru, parasite single, ossia single che vivono in casa dei loro genitori e non lavorano). Chiaramente esistono parole giapponesi per indicare tali concetti. Nel caso delle molestie sessuali, la parola autoctona, sostituita ormai da セクハラ, sarebbe 性的嫌がらせ (seiteki iya garase). Allo stesso modo パラサイト・シングル: il parassitismo è espresso da 寄生 (kisei), mentre le persone non sposate si chiamano 未婚者 (mikonsha). Si tratta di fenomeni rilevanti nella società giapponese contemporanea, che appunto hanno sviluppato dei sinonimi più caratterizzanti, dove il concetto da trasmettere è reso in maniera più forte dai gairaigo.

Sato e Yama: gli spazi culturali della tradizione shintō



Un aspetto tipico della cultura giapponese che ha sempre interessato gli studiosi dell’arcipelago del Sol levante così come i non addetti ai lavori è senza dubbio il rapporto che i giapponesi vantano nei confronti della natura e dei suoi elementi. Si tratta di un rapporto di rispetto (reciproco) all’interno del quali lo straniero si perde e si disorienta. E così come uno straniero si perderebbe nel sistema culturale giapponese, così un giapponese si perderebbe senza la protezione del proprio sistema culturale. Cosa significa?
È necessario innanzitutto spiegare approssimativamente le credenze religiose autoctone giapponesi. Dico “autoctone” perché il buddismo – di origine indiana ed arrivato in Giappone dopo una “contaminazione” cinese - verrà momentaneamente lasciato da parte, per una maggior concentrazione sullo shintoismo. Secondo la tradizionale religione giapponese, la natura del Giappone è abitata dai cosiddetti kami, vale a dire le entità sovrannaturali che popolano il mondo dello shintō, la religione appunto autoctona del Giappone.
I vari e numerosi kami non sono tutti uguali, ma si differenziano a seconda dell’elemento naturale – sia esso una pianta, un fiume, un animale o addirittura un essere umano – in cui abitano. Essi vengono normalmente venerati nei santuari jinja (sacrari shintoisti) dei villaggi o del quartiere. Sottolineiamo che questi kami non possiedono le caratteristiche del dio in senso cristiano, ossia onnipotenza, onnipresenza e onniscienza. Ma sono comunque di natura benevola, anche se – come un normale essere umano – se subiscono un torto possono arrabbiarsi.
Inoltre è necessario aggiungere che, come ogni tradizione che si rispetti, anche in Giappone esistono alcune credenze sull’esistenza dei cosiddetti “personaggi trickster”.  Per trickster si intende un dio, una dèa, uno spirito zoomorfo o antropomorfo che si prende gioco della natura debole degli esseri umani, spesso con conseguenze negative per i malcapitati. La tradizione giapponese dei trickster si riferisce ad un mondo pressoché sconosciuto abitato da strane creature, folletti e spiritelli chiamati obake. Nel folklore giapponese si possono considerare trickster i cosiddetti tanuki (letteralmente il “cane procione”),   i kitsune (la volpe)  e i kappa (spiriti che popolano i laghi ed i fiumi del Giappone). Tali obake non sono necessariamente pericolosi, a meno che non si vada contro a determinate regole e leggi non scritte: la pericolosità di questi personaggi si palesa solamente nel caso in cui vengano in contatto con l’uomo penetrato nel loro territorio.
Eccoci quindi al punto della questione: l’esistenza del territorio “coltivato” ed il territorio “incolto”. Le virgolette sottintendono che il significato di “colto” ed “incolto” è più metaforico che reale.
La differenza che culturalmente esiste tra il territorio coltivato e il territorio incolto è essenziale nel rapporto che i giapponesi hanno con la natura ed i suoi kami. Si tratta di due zone spazialmente ben definite, sato  (lo spazio dell’uomo) e yama (lo spazio naturale). Sono in primo luogo due spazi dell’ecosistema - l’uno il villaggio, l’altro la foresta - ma corrispondono senza dubbio anche a due spazi culturali. La differenza tra sato e yama era chiara già nel periodo Heian (794 – 1185), dove i due concetti erano espressi dagli aggettivi nigi  (sato) e ara  (yama). Per un essere umano, uscire dal proprio spazio fisico significa inevitabilmente perdere la protezione del proprio spazio culturale, uscire dal sentiero equivale a perdersi nello spazio che non deve essere valicato dall’uomo.
Seguendo questa divisione fisica e culturale dell’ecosistema, il sacrario jinja, luogo di culto per i “fedeli” dello shintoismo (come potrebbe essere una chiesa per i cristiani) verrà costruito al confine tra il coltivato e l’incolto. La spiegazione sta nel fatto che i kami non risiedono nel jinja, ma nello spazio naturale: il jinja rappresenta solamente il luogo in cui gli esseri umani ed i kami si incontrano, ed è quindi giusto (oltre che logico) che si trovi sul limite dei due spazi, una “zona franca” che non appartiene a nessuno. Il sacrario ha un’unica entrata, sul davanti, segnalata da un torii, il portale in legno costituito da due pilastri e da due supporti trasversali: il torii indica che si sta entrando in un territorio in cui anche i kami sono presenti e il valicarlo coincide con il misogi, un atto di purificazione effettuato nel temizuya, il padiglione per le abluzioni.
Detto questo si delinea un’ulteriore esigenza di differenziazione (e di conseguenza un’ulteriore complicazione): l’esistenza, all’interno dello spazio incolto, di due diverse aree. Il satoyama è una parola che unisce i due caratteri indicanti il coltivato e l’incolto e si riferisce ad uno spazio dove l’opera dell’uomo è presente ma non permanente (solitamente è il luogo di lavoro, ma non di residenza, dell’uomo: abitare nel satoyama significherebbe perdere le proprie caratteristiche di essere umano, diventando così yamaotoko, il selvaggio). Un’altra zona si trova invece aldilà del satoyama: lo okuyama. Okuyama significa “i recessi della montagna” o meglio “la parte intima e profonda della montagna” ed è un termine che rappresenta la parte dello yama più lontana dalle abitazioni dell’uomo, l’area più misteriosa e sconosciuta. È lo spazio dove l’uomo (a parte l’asceta) non può entrare. È la reale dimora dei kami.
A questo punto bisogna tenere conto che non si tratta di una differenza meramente astratta, ma al contrario queste credenze hanno ancora oggi un enorme influsso sulla mentalità pratica dei giapponesi, i quali spesso non ne sono nemmeno consapevoli.  Gli obake, sono diventati dei personaggi in molti manga e videogiochi (i tanuki rappresentano talvolta dei personaggi della serie Pokémon). I “fantasmi tormentati”, quelli che in giapponese vengono definiti yūrei, sono il riferimento obbligato per le creature dei moltissimi film horror giapponesi che da qualche anno a questa parte stanno spopolando anche in occidente, uno per tutti “The ring”. In questo caso il riferimento al satoyama è molto chiaro: le zone nelle quali l’essere umano non deve abitare sono caratterizzate da una certa confusione, da una potenzialità non completamente conoscibile. È proprio in questi luoghi che il folklore giapponese colloca gli spiriti inquieti, tra i quali, oltre agli  yūrei, anche i goryō, i morti vendicativi. Una casa abbandonata a se stessa e in rovina, dove la natura può svilupparsi senza alcun ostacolo, è spesso infestata da fantasmi. La casa disabitata alla quale nessuno si avvicina perché lì ha avuto luogo una morte violenta (massima impurità per lo shintoismo) è spesso l’incipit dell’horror cinematografico giapponese. Ed il fatto che si tratti di un tema così spesso ricorrente nelle produzioni di massa giapponesi è senza dubbio indice del fatto che i giapponesi stessi sono ampiamente influenzati dall’esistenza degli spazi culturali shintō, anche se in maniera quasi del tutto inconsapevole.

Jacopo Colombi


Riferimenti:
-       Dalla Chiesa, Simone, “Spazio umano e spazio ‘naturale’ nei parchi nazionali giapponesi”, Atti del XXII convegno si studi sull’Asia e sul Giappone, 1992, pp. 101 – 121.
-       Raveri, Massimo, Itinerari nel sacro, l’esperienza religiosa giapponese, Venezia, Libreria  
      Editrice Cafoscarina, 2006, pp. 372.









Nihon Kenkyuu

Questo blog nasce dalla mia volontà di condividere le conoscenze sull'estremo oriente ed in particolare sul Giappone acquisite durante i miei 5 anni di studi universitari e nei viaggi che ho avuto modo di effettuare.
Ho intenzione di pubblicare post di natura linguistica, socio-culturale, economico-politica riguardanti il Giappone, oltre a traduzioni svolte da me di articoli di giornali giapponesi come Asahi Shinbun o Mainichi Shinbun.
Spero ovviamente che la condivisione riesca a portare ad un confronto con tutti gli studiosi, esperti ma anche semplicemente appassionati della lingua e della cultura giapponese.