giovedì 12 agosto 2010

Sato e Yama: gli spazi culturali della tradizione shintō



Un aspetto tipico della cultura giapponese che ha sempre interessato gli studiosi dell’arcipelago del Sol levante così come i non addetti ai lavori è senza dubbio il rapporto che i giapponesi vantano nei confronti della natura e dei suoi elementi. Si tratta di un rapporto di rispetto (reciproco) all’interno del quali lo straniero si perde e si disorienta. E così come uno straniero si perderebbe nel sistema culturale giapponese, così un giapponese si perderebbe senza la protezione del proprio sistema culturale. Cosa significa?
È necessario innanzitutto spiegare approssimativamente le credenze religiose autoctone giapponesi. Dico “autoctone” perché il buddismo – di origine indiana ed arrivato in Giappone dopo una “contaminazione” cinese - verrà momentaneamente lasciato da parte, per una maggior concentrazione sullo shintoismo. Secondo la tradizionale religione giapponese, la natura del Giappone è abitata dai cosiddetti kami, vale a dire le entità sovrannaturali che popolano il mondo dello shintō, la religione appunto autoctona del Giappone.
I vari e numerosi kami non sono tutti uguali, ma si differenziano a seconda dell’elemento naturale – sia esso una pianta, un fiume, un animale o addirittura un essere umano – in cui abitano. Essi vengono normalmente venerati nei santuari jinja (sacrari shintoisti) dei villaggi o del quartiere. Sottolineiamo che questi kami non possiedono le caratteristiche del dio in senso cristiano, ossia onnipotenza, onnipresenza e onniscienza. Ma sono comunque di natura benevola, anche se – come un normale essere umano – se subiscono un torto possono arrabbiarsi.
Inoltre è necessario aggiungere che, come ogni tradizione che si rispetti, anche in Giappone esistono alcune credenze sull’esistenza dei cosiddetti “personaggi trickster”.  Per trickster si intende un dio, una dèa, uno spirito zoomorfo o antropomorfo che si prende gioco della natura debole degli esseri umani, spesso con conseguenze negative per i malcapitati. La tradizione giapponese dei trickster si riferisce ad un mondo pressoché sconosciuto abitato da strane creature, folletti e spiritelli chiamati obake. Nel folklore giapponese si possono considerare trickster i cosiddetti tanuki (letteralmente il “cane procione”),   i kitsune (la volpe)  e i kappa (spiriti che popolano i laghi ed i fiumi del Giappone). Tali obake non sono necessariamente pericolosi, a meno che non si vada contro a determinate regole e leggi non scritte: la pericolosità di questi personaggi si palesa solamente nel caso in cui vengano in contatto con l’uomo penetrato nel loro territorio.
Eccoci quindi al punto della questione: l’esistenza del territorio “coltivato” ed il territorio “incolto”. Le virgolette sottintendono che il significato di “colto” ed “incolto” è più metaforico che reale.
La differenza che culturalmente esiste tra il territorio coltivato e il territorio incolto è essenziale nel rapporto che i giapponesi hanno con la natura ed i suoi kami. Si tratta di due zone spazialmente ben definite, sato  (lo spazio dell’uomo) e yama (lo spazio naturale). Sono in primo luogo due spazi dell’ecosistema - l’uno il villaggio, l’altro la foresta - ma corrispondono senza dubbio anche a due spazi culturali. La differenza tra sato e yama era chiara già nel periodo Heian (794 – 1185), dove i due concetti erano espressi dagli aggettivi nigi  (sato) e ara  (yama). Per un essere umano, uscire dal proprio spazio fisico significa inevitabilmente perdere la protezione del proprio spazio culturale, uscire dal sentiero equivale a perdersi nello spazio che non deve essere valicato dall’uomo.
Seguendo questa divisione fisica e culturale dell’ecosistema, il sacrario jinja, luogo di culto per i “fedeli” dello shintoismo (come potrebbe essere una chiesa per i cristiani) verrà costruito al confine tra il coltivato e l’incolto. La spiegazione sta nel fatto che i kami non risiedono nel jinja, ma nello spazio naturale: il jinja rappresenta solamente il luogo in cui gli esseri umani ed i kami si incontrano, ed è quindi giusto (oltre che logico) che si trovi sul limite dei due spazi, una “zona franca” che non appartiene a nessuno. Il sacrario ha un’unica entrata, sul davanti, segnalata da un torii, il portale in legno costituito da due pilastri e da due supporti trasversali: il torii indica che si sta entrando in un territorio in cui anche i kami sono presenti e il valicarlo coincide con il misogi, un atto di purificazione effettuato nel temizuya, il padiglione per le abluzioni.
Detto questo si delinea un’ulteriore esigenza di differenziazione (e di conseguenza un’ulteriore complicazione): l’esistenza, all’interno dello spazio incolto, di due diverse aree. Il satoyama è una parola che unisce i due caratteri indicanti il coltivato e l’incolto e si riferisce ad uno spazio dove l’opera dell’uomo è presente ma non permanente (solitamente è il luogo di lavoro, ma non di residenza, dell’uomo: abitare nel satoyama significherebbe perdere le proprie caratteristiche di essere umano, diventando così yamaotoko, il selvaggio). Un’altra zona si trova invece aldilà del satoyama: lo okuyama. Okuyama significa “i recessi della montagna” o meglio “la parte intima e profonda della montagna” ed è un termine che rappresenta la parte dello yama più lontana dalle abitazioni dell’uomo, l’area più misteriosa e sconosciuta. È lo spazio dove l’uomo (a parte l’asceta) non può entrare. È la reale dimora dei kami.
A questo punto bisogna tenere conto che non si tratta di una differenza meramente astratta, ma al contrario queste credenze hanno ancora oggi un enorme influsso sulla mentalità pratica dei giapponesi, i quali spesso non ne sono nemmeno consapevoli.  Gli obake, sono diventati dei personaggi in molti manga e videogiochi (i tanuki rappresentano talvolta dei personaggi della serie Pokémon). I “fantasmi tormentati”, quelli che in giapponese vengono definiti yūrei, sono il riferimento obbligato per le creature dei moltissimi film horror giapponesi che da qualche anno a questa parte stanno spopolando anche in occidente, uno per tutti “The ring”. In questo caso il riferimento al satoyama è molto chiaro: le zone nelle quali l’essere umano non deve abitare sono caratterizzate da una certa confusione, da una potenzialità non completamente conoscibile. È proprio in questi luoghi che il folklore giapponese colloca gli spiriti inquieti, tra i quali, oltre agli  yūrei, anche i goryō, i morti vendicativi. Una casa abbandonata a se stessa e in rovina, dove la natura può svilupparsi senza alcun ostacolo, è spesso infestata da fantasmi. La casa disabitata alla quale nessuno si avvicina perché lì ha avuto luogo una morte violenta (massima impurità per lo shintoismo) è spesso l’incipit dell’horror cinematografico giapponese. Ed il fatto che si tratti di un tema così spesso ricorrente nelle produzioni di massa giapponesi è senza dubbio indice del fatto che i giapponesi stessi sono ampiamente influenzati dall’esistenza degli spazi culturali shintō, anche se in maniera quasi del tutto inconsapevole.

Jacopo Colombi


Riferimenti:
-       Dalla Chiesa, Simone, “Spazio umano e spazio ‘naturale’ nei parchi nazionali giapponesi”, Atti del XXII convegno si studi sull’Asia e sul Giappone, 1992, pp. 101 – 121.
-       Raveri, Massimo, Itinerari nel sacro, l’esperienza religiosa giapponese, Venezia, Libreria  
      Editrice Cafoscarina, 2006, pp. 372.









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